Il nostro 4 agosto peggiore
Giovanni Spadolini e l’equilibrio politico perduto

Giovanni Spadolini era profondamente convinto che il sistema politico italiano riponesse il suo equilibrio nel ruolo di governo svolto dalla Democrazia cristiana e dalle alleanze che quel partito aveva intrapreso dal secondo dopoguerra in poi. A pochi mesi dalla sua morte, vent’anni fa esatti, Spadolini confidava ad un giornalista de “l’Unità”, le sue apprensioni per l’Italia del maggioritario. Lo preoccupava la difficoltà di trovare un punto di riferimento saldo quanto quello rappresentato dal partito cattolico per quasi 50 anni. Come presidente del Senato, Spadolini aveva ancora maggiormente sviluppato la sua vocazione istituzionale. La nomina a senatore a vita gli impose di allontanarsi da un’azione diretta all’interno del partito repubblicano, partito che mai comunque avrebbe abbandonato. Eppure Spadolini aveva vissuto con amarezza la scelta di rompere con la democrazia cristiana del 1991. La giudicò, anche se come suo costume, sottovoce, un errore ed un imprudenza. Questo nonostante fosse consapevole del logoramento della formula di pentapartito, sempre più inadeguata alle necessità di governo del Paese. Durante la campagna elettorale del ’92, avversò la proposta che il Pri lanciò dall’ opposizione di un governo tecnico. “Il governo tecnico”, venne definito da Spadolini, una soluzione propria del tempo di Badoglio. Egli avrebbe voluto rinegoziare il peso del Pri all’interno della vecchia coalizione con socialisti e democristiani, non presagendo la bufera giudiziaria che si apprestava a cadere su quegli stessi partiti. Da segretario del Pri, aveva avuto una grande occasione al momento della crisi di Sigonella. Lo strappo consumato sui sequestratori dell’Achille Lauro, fu tale che il Pri abbandonò il governo Craxi. Tuttavia questo non impedì poi di rientrarvi e lo stesso Spadolini da ministro della Difesa. Nel suo modo di concepire la vita politica, Spadolini escludeva categoricamente che una forza storica di minoranza, qual era quella repubblicana, potesse costituire un polo politico alternativo ai suoi alleati tradizionali. Per di più temeva che lasciando socialisti e democristiani, si sarebbero indeboliti ulteriormente quei valori di laicità dello Stato e quei riferimenti atlantici che Spadolini riteneva indispensabili alla nostra democrazia. Quanto ai comunisti, non li prese mai seriamente in considerazione, nemmeno quando si chiamarono in altro modo. Spadolini non era di formazione mazziniana e non proveniva dall’azionismo. Privo di linfa rivoluzionaria o antifascista, nella sua prima giovinezza, divenuto liberale, confidava nella mediazione e nel rafforzamento delle istituzioni repubblicane, che dai tempi dell’infiltrazione della Loggia P2, temeva debolissime. Non gli sarebbe dispiaciuta una riforma della Costituzione in senso presidenziale, e anticipò Craxi nel vagheggiare quella proposta. La virulenza con cui il leader socialista si spinse poi su quel terreno, gli suggerì di restare a vedere come quello se la sarebbe cavata. La sola idea di modificare funzioni e ruoli del Senato, invece, Spadolini, l’avrebbe giudicata semplicemente un’idiozia. Non vorremmo essere condizionati dal sentimento profondo di affetto e di stima verso la memoria di un formidabile protagonista della vita politica italiana del secolo scorso, eppure siamo inclini a considerare la sua morte biologica effetto di una profonda malinconia. Dopo la sconfitta per la rielezione a presidente del Senato, sfumata la sua designazione a Presidente della Repubblica, Spadolini subì un colpo profondo. Politica, cultura, istituzioni formavano l’intero destino della sua esistenza privata. La sola idea di dover sopravvivere senza quella pienezza, fu fatale ad un organismo vitalissimo che mai si sarebbe piegato ad una qualsiasi malattia mortale.

Roma, 4 agosto 2014